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Politica
Di Maio, Draghi, Letta: ecco perchè all'Europa piacciono i "trombati" italiani

Di Maio, Draghi, Letta/ All'Europa piacciono i "trombati" in Italia

C’è sempre un po’ di nazionalismo quando si guarda con malcelato orgoglio alle cinque squadre italiane di calcio che il prossimo anno saranno tra le contendenti della Champions League. Una in più di quest’anno. Quando l’Italia diventa protagonista ci fa piacere. Con lo stesso spirito è difficile non sentirsi un po’ blanditi da un orgoglio nazionale (se non nazionalista) quando si vede quanta e quale eco abbia ricevuto il discorso di Mario Draghi nella sconosciuta La Hulpe (comune vallone con settemila abitanti e un bel castello, in Belgio), commissario europeo in pectore per molti (a partire dal francese Macron, secondo quello che si legge). Analogo sentimento ci ha accompagnato nel vedere il ruolo di disegnatore del futuro europeo (“Molto più di un mercato”) affidato dal Consiglio europeo a Enrico Letta.

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Confesso che quando un anno fa Luigi Di Maio venne incaricato come “inviato speciale” Ue per il Golfo Persico ci era stato un po’ più difficile gioire. Intendiamoci, può sembrare antipatico fare nomi e cognomi. Nulla contro le singole persone, ma le considerazioni riguardano i ruoli e i destini istituzionali e politici. E qui si tratta di leader politici e di rappresentanti delle istituzioni, uomini di lotta (politica) e di governo.

E c’è una strana linea rossa che unisce Di Maio, Letta e Draghi: per dirla un po’ grossolanamente all’Europa sembrano piacere i “trombati” italiani. Certo, c’è trombato e trombato. Il pedigree di Di Maio non somiglia a quello di Draghi, anche se - grazie a superMario - Di Maio può esibire la patente di “migliore”, visto che del Governo dei migliori ha fatto parte, come ministro degli Esteri. Peccato però che gli elettori gli abbiano poi negato il ritorno in Parlamento.

Altri elettori hanno peraltro impedito a Mario Draghi di salire al Quirinale. Vittime della democrazia diretta e parlamentare. Vittima della democrazia è stato anche Enrico Letta, che “migliore” probabilmente si sente a prescindere, almeno da quando si intestò con qualche “pizzino” la salita di un altro “super Mario” (Monti) dalla cattedra a Palazzo Chigi. Anche il professore divenne in poco tempo da salvatore della Patria a “trombato” con la scelta elettorale che ne fece un irrilevante politicamente. Letta da premier e da leader del partito di maggioranza divenne presto emerito professore a Parigi, per poi riprovare - perdendo - una nuova sfida politica ed elettorale sempre a capo del Pd.

Insomma, Di Maio, Letta e Draghi sono tutti e tre vittime della democrazia. Di più. Sono quasi offesi dalle regole della democrazia. I “migliori” non si piegano a queste banalità. E all’Europa sembra che del consenso interessi poco.

Certamente il consenso non è l’unico metro di giudizio. Dovrebbe contare il merito, che si misura tuttavia in una sorta di bilancio d’esercizio personale, tra successi e insuccessi. L’Europa è meritocratica? Magari. Con il massimo rispetto per l’uomo del “whatever it takes”, Mario Draghi non ha trasferito a Palazzo Chigi il piglio e il rigore con cui scrisse la famosa lettera - a doppia firma con Trichet - per tracciare il percorso del risanamento dello Stato italiano, nell’estate del 2011. Quando si è trovato a trasferire i programmi in azioni di governo ha piegato la testa al superbonus (criticandolo a parole, ma rifinanziandolo) e al reddito di cittadinanza: due degli strumenti che hanno devastato la cassa del Paese.

Di Letta abbiamo detto: l’inventore della formula del campo largo - riproposta con ardore e sconfitta da Elly Schlein - ha decretato in due riprese la fine della centralità del Pd e una sostanziale irrilevanza di governo (si ricorda più la scena del campanellino offerto svogliatamente a Renzi che qualunque provvedimento dell’Esecutivo).

Nei “curricula” si cerca sempre di celare l’insuccesso, ma gli obiettivi mancati non mancano a questa curiosa terna di “grandi italiani” in Europa. Non è facile spiegare ai più giovani per quale motivo vengano cooptati dalle istituzioni europee uomini che hanno discretamente fallito a casa propria. Si potrebbe dire, come Gesù Cristo nel Vangelo: nessuno è profeta in patria. Ma la citazione rischia di essere eccessiva anche per i “migliori”.

 






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